blog aziendale di LA JACARANDA
locanda con cucina di Sant'Antioco



Sardegna, Sulcis, Sant'Antioco, La Jacaranda:
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lunedì 12 maggio 2014

Del mal di Sardegna e altri affari

Abbiamo avuto la gradita opportunità di ospitare a La Jacaranda, alcuni giorni orsono, Claudia Zedda, nota web blogger e scrittrice cagliaritana.. Al suo rientro Claudia Zedda ci ha inviato questa nota che, con pubblichiamo con moltissimo piacere. 

Sant’Antioco - Tratalias andata e ritorno

Nata a Cagliari e cresciuta nella bella città del sole, mi ha sempre affascinato l’idea che a pochi passi da casa, separato da un fine ponticello che attraversa una laguna brulicante di vita, ci sia un angolo di cielo, screziato di arancio e lichene, battuto dal vento, vivo di colori e mistero. Amo Sant’Antico, e per quanto non lo abbia mai detto, lei pure mi ama, già che tutte le volte che la visito mi strizza l’occhio ammiccante. L’ha fatto anche questo inizio di Maggio e pure se battuta da un vento impietoso, quello che solo le isole conoscono e amano, mi ha mostrato angoli di sé nascosti, belli di una bellezza audace, sincera, appagante, di quella che devi raccontare a tutti i costi.

La Jacaranda

 



Il proprietario l’ho conosciuto qualche anno fa in occasione della pubblicazione di Creature Fantastiche in Sardegna. C’era in quel b&b qualcosa di intrigante che mi ha attirato fin da subito, sarà che adoro la Jacaranda, l’arbusto intendo, sarà che mi piace sempre conoscere, quando possibile, i miei lettori. Sarà quel che sarà l’occasione è saltata fuori proprio qualche settimana fa: Sant’Antioco era tutta intenta a festeggiare il suo Santo e io ho avuto modo di ritornare in quell’isola nell’isola che mi ha adottato, come una mamma dai fianchi larghi e dalle mani sporche di semola. Il b&b è bello come mi aspettavo, curato fin nei minimi dettagli, profumato di buono, e tutto ingioiellato di libri e di quadri che la moglie di Andrea, Chiara, tra un manicaretto e l’altro si diletta a confezionare. Piccola e piena la biblioteca della Locanda mi ha rubato il cuore, insieme con le istantanee di Sant’Antioco che galleggiano nella stanza, fra i tavoli, fra i libri.
Appena arrivati abbiamo scambiato due chiacchiere con Andrea, qualche consiglio sul cosa visitare e l’invito alla cena di quella sera, “piatti autentici, tipici, con tutto il profumo del mare”, ci ha promesso e in effetti così è stato. E già che questo era il secondo tour che facciamo con la nostra piccola Rebecca, Andrea ci ha consigliato di acquistare il Marrakkuciu. “Di cosa si tratta”, chiedo io. E lui sorride.

 

 

 

 

 Su marrakkòcciu

Se hai un bambino che sta mettendo i denti, o che i denti li ha già e sta imparando ad usarli, il marrakkòcciuti cambierà la vita. Mia figlia se n’è letteralmente innamorata e io sto pensando di preparargliene molti altri. E’ un dentaruolo in pane, di quel genere che deve aver intrattenuto i nostri nonni e bisnonni prima che saltassero fuori quelli in plastica, silicone, caucciù e chi più ne ha, più ne metta. Ho scoperto più tardi che la tradizione è di tutta la Sardegna, angolo più angolo meno, e che in alcuni casi si chiama marrakkòcciu (sa marra è la zappa, e la zappa tradizionalmente è associata simbolicamente ai nuovi dentini che saltano fuori) ma anche barrakkòcciu (sa barra è la mascella, e anche in questo caso ha a che fare con i dentini da latte, nuovi di zecca). Imparare qualcosa di nuovo sulle nostre tradizioni è sempre entusiasmante: ne ho portato a casa almeno quattro, tutta fiera della mia scoperta.

 

 

 

Tratalias la città fantasma


E’ distante pochi giri di ruota da Sant’Antioco e il suo borgo storico nasconde più di un gioiellino. Se vuoi visitare la città fantasma non devi puntare in direzione di Tratalias centro, ma seguire le indicazioni per la sua chiesa, detta di Santa Maria. Fosse stato per i suoi abitanti quel borgo non sarebbe mai diventato fantasma, così ci ha raccontato la guida, ma la creazione del lago artificiale di Monte Pranu, creò grossi problemi alla cittadina fino ad allora piuttosto fiorente. I problemi erano di quelli non aggirabili: l’acqua, infiltratasi nel sotto suolo fino a raggiungere Tratalias è salita lentamente a galla fino ad inumidire pavimenti e muri di quella città che lentamente iniziò a sgretolarsi come zolletta di zucchero bagnata da gocce di caffè.
La chiesa è la vera super star della città fantasma, uno strano incrocio fra romanico e gotico, tozza e forte nella sua struttura, ma che tende al cielo. 
La sua scala interna e sul frontone ha incuriosito chi la stava visitando con noi.



“E’ una scala priva di funzionalità: il suo scopo è squisitamente simbolico di incentivo ai fedeli a raggiungere Dio”. Bello penso io, e penso pure che quei visitatori che insieme a noi calpestano il suolo della chiesa, potrebbero essere gli ospiti della Jacaranda. In effetti, chiamalo istinto chiamala bruxeria, sono loro gli altri ospiti di Andrea. Non sono sardi e quella è la loro ultima giornata sull’isola che lasciano con una certa malinconia, perché sì, il Mal di Sardegna è una cosa reale, con la quale tutti quelli che la visitano occasionalmente devono fare i conti. Sicché a cena si sono svolti tutti i rituali del caso, dell’ultimo mirto, dell’ultima sigaretta, dell’ultima occhiata alla luna sarda, che tutte queste cose ci sono anche oltre mare, ma gustarle sull’isola, gustarle a Sant’Antioco, è tutto un altro paio di maniche.
                                                                                                                 
     Claudia  Zedda



 


Claudia Zedda, web content freelance e scrittrice, si è laureata in Lettere Moderne con indirizzo socio antropologico.
Cura i suoi blog:
 “KalarisWeblob”, ”EssereFreelance”, “BottegaKreativa” e "Kòendi"  questi ultimi dedicati alle sue grandi passioni (oltre alla fotografia): gli hobby creativi e la cucina.
Ha pubblicato nel 2010  il suo primo saggio “Creature fantastiche in Sardegna“ (ed. La Riflessione) che poi  era la sua tesi di laurea. Nel 2011, dato che a scrivere di Sardegna ci ha preso gusto, ha pubblicato “Est Antigoriu“(ed. La Riflessione). 
Quest'anno ha pubblicato il suo primo romanzo: L'Amuleto per le edizioni Condaghes.
CLAUDIA ZEDDA SABATO 31 maggio alle 18.30 presenterà a
 LA JACARANDA i suoi libri ed i suoi siti web.
Vi aspettiamo numerosi!! 

mercoledì 7 maggio 2014

Un pomeriggio di fuoco a Sant'Antioco

Nel Cimitero di Sant'Antioco, c’è un piccolo monumento in pietra con la foto del Canonico Raffaele Ciampelli; questi si è reso protagonista di una vicenda tutta Antiochense. Questa ricostruzione storica è stata realizzata grazie ai documenti lasciati dal compianto Mons. Tore Armeni.
Il testo è stato pubblicato tempo fa su Facebook, lo ho copiato ma non ho salvato il none dell'autore. Mi scuso con lui e mi riprometto di citare la fonte se qualcuno vorrà comunicarmela.


 
Pomeriggio di Fuoco a Sant’Antioco

Molti vestivano "s'esti peddi", una grande pelliccia formata da quattro pelli di pecora, che abitualmente viene indossata, ancora oggi, dai pastori durante le nottate di inverno quando vegliano il gregge, isolati sui pascoli. Altri indossavano un nero cappotto lungo fino alle calcagne aperto dietro fino alla altezza della vita per lasciare liberi i movimenti quando si sale a cavallo.

 Dopo i cavalieri, l'interminabile sfilata dei costumi femminili nella sognante bellezza di mille fantasmagorici colori .Il sacrista maggiore "Su Scolanu mannu", Antioco Serpi, noto "Ziu Giardinu", conscio del suo grande ruolo, con la grande croce astile d'argento, apriva la breve sfilata dei chierichetti che teneva composti ed ordinati, con occhiate torve e minacciose .Seguiva il simulacro attorniato dagli "obbreris" con in mano ceri giganti, simbolo della loro importanza. Incedevano gravi e maestosi, come senatori romani, e nella loro posa quasi sacerdotale non mancava una leggera nota di commedia. Tutti assieme intonavano i versetti dei "Coggius", il canto popolare che, in lingua sarda, narra vita, virtù e martirio del Santo. E quelle voci tentavano di imitare un complesso orchestrale con tutta la potenza della loro ugola, petto a mantice, bocca spalancata fino alle orecchie, vene del collo turgide, faccia congestionata per lo sforzo di superarsi a vicenda. Tutto il popolo seguiva il canto. E le urla devote raggiungevano il cielo!

 Dietro il simulacro il canonico parroco Raffaele Ciampelli con i vice parroci in terno rosso - fuoco: il sindaco Luisiccu Biggio con gran fascia tricolore e tutta una marea di popolo che cantava e pregava. Tutto procedeva regolarmente fino a "Sa Ruga ‘e Su’ Conti" - via Cavour; nulla lasciava prevedere una conclusione tanto tempestosa. I buoi, i cavalli, i costumi erano ben avviati, lungo la via Cavour ed avrebbero deviato per "Sa Ruga ‘e Sa Presonedda" - via XX Settembre.
 
Ma improvvisamente il parroco Ciampelli, forse per un improvviso malessere, interpretato come un capriccio, ordinò che il simulacro deviasse per via Gialeto, abbreviando così il tradizionale itinerario.
Cessarono i canti e le preghiere e quel popolo orante e devoto si scatenò, come una furia. Un coro di urla frenetiche e minacciose di protesta si levò contro il parroco Ciampelli che rischiava di essere linciato.
Dalla vicina via Nuoro, "Sa Ruga de Is Buttegheddas", dove ogni casa era una bettola, uscirono a decine gli uomini che passavano il pomeriggio alternando la partita a carte con abbondanti libagioni. Via Gialeto fu bloccata. "Ziu Giardinu" il sacrista, premuto da ogni parte, pensò opportuno smontare il grande Crocifisso d'argento dall’asta e brandendola come una clava, minacciava i più scalmanati.

Fu evitato il peggio per l’ intervento dei carabinieri, comandati dal maresciallo Secci. Mentre le lunga teoria degli animali e dei costumi aveva seguito il percorso abituale, il simulacro col clero fece dietro-front verso la parrocchia. Ondeggiando paurosamente sulla portantina a stento rientrò in Chiesa che, nel frattempo, si era riempita di donne spaurite e piangenti. Sul sagrato intanto era scoppiata una spaventosa rissa tra i pochi sostenitori del parroco ed una folla che urlava: "Repubblica!!!". Volavano schiaffi e pugni e ben presto la baruffa fu generale. Il cancello laterale, di ferro venne subito chiuso, mentre il portale grande della chiesa veniva stazionato dai carabinieri. E’ a questo punto che entra in scena una figura di primo piano della sommossa. Vincenzo C., noto col nomignolo di “Babbu C.”, barcollante per il vino che aveva tracannato senza misura, volle mettersi al comando della moltitudine imbestialita. Tentò di arringare la folla, ma si sentì soltanto un urlo che avrebbe dovuto attirare l'attenzione dei presenti chissà per quale discorso dettato dai fumi di Bacco. "Populu locu..." aveva iniziato, ma un suo figliastro, Giuseppe A., lo sollevò di peso, gli mise una mano in bocca per impedirgli di continuare e riuscì a portarlo via, non ostante le sue riluttanze, in casa di una cugina, Maria Teresa M. Venne vergognosamente legato alla scala di accesso al solaio. Ma "Babbu C." non voleva fare la fine ingloriosa di un capo trasportato lontano dal campo di battaglia. Rimasto solo in casa, tanto fece che riuscì a slegarsi, raggiunse la piazza superò misteriosamente lo sbarramento dei carabinieri e coinvolse nella sua violenza, Giovanni F., lo sposino che, esasperato, ricercava spasmodicamente la sposa, smarrita in tutto quel trambusto.

 "Babbu C.", entrato in chiesa terrorizzò tutte le donne che vi si erano rifugiate, urlando come un energumeno: "Populu locu! Su Santu est su nostu! Foras su Santu!", pretendendo che il simulacro venisse riportato fuori per la processione! Giovanni F. scambiato per uno dei facinorosi, venne afferrati e portato via, mentre la sposina, esterrefatta vinta da quella terribile emozione, cadeva pesantemente al suolo, priva di sensi.
"Babbu C." invece, vista la mala parata, approfittando di tutto quel disordine, riuscì a guadagnare il cortile adiacente alla chiesa e scomparve. In chiesa le donne strillavano ed urlavano, senza ritegno. Alcune spruzzavano abbondantemente di acqua di colonia il volto di Peppina F., nel tentativo di farla rinvenire.
Sulla piazza la folla inferocita non intendeva a calmarsi. Un gruppetto di uomini, imitando il gesto sacrilego di certo Sebastiano P., noto "Ghiacciu mannu", armatisi di vanghe e di pale lanciavano nel tempio, attraverso il cancello laterale di ferro, terra sassi, aumentando la disperazione ed il terrore. A questo punto Emanuele G., "Ziu Lieri mannu", confidando in un improvviso intervento miracoloso del Santo, salì sul presbiterio, ed afferrato l'abito del simulacro, scongiurava, piangendo: "Sant'Antiogu fai su meraculu, fai meraculu!!!". I cavalli bardati, intanto, imbizzarriti per quel bailame disarcionarono molti cavalieri, trascinando in una fuga pazza verso Calasetta e Monte Cresia anche i cavalli dei venditori di merce, che stazionavano in via Castello .Costretti ad inseguire le loro bestie abbandonarono i tavoli di vendite, che vennero rovesciati, seminando ovunque merce d'ogni genere: mestoli, taglieri, pale da forno, cucchiaioni di legno, teglie, tridenti, forconi, zappe, vanghe, campanacci, calderoni e bracieri di rame, cucchiai, coltelli, rasoi a serramanico, temperini madreperlati, tabacchiere d'osso. All’altro lato della piazza: noci, noccioline e dolciumi sardi, torroni, "pastiglias de mongia" "mustacciolus","pardulas", "candelaus", "gueffus", "pabassinas nuoresas", "pirichittus de Pirri", "ciambellas", "croccantinus", "pistoncus de crobi".
La piazza divenne uno strano campo di battaglia con tutto quel bottino che le dava l’aspetto di un grande palco, pronto per una tragicommedia. Per i bambini fu una provvidenza insperata, un miracolo del Santo Patrono! Si precipitarono su quella preda sparsa per terra da una fata benefica, e con la bocca piena e le tasche piene d’ogni ben di Dio, iniziarono un concerto fuori programma battendo con mestoli e cucchiaioni di legno sui calderoni, sui bracieri di rame e mugolavano e nitrivano, imitando i versi dei buoi e dei cavalli.
Gli adulti invece continuavano la vergognosa canea contro i tutori dell'ordine che, circondati, stavano cedendo a quella violenza brutale. Lo stesso maresciallo ne uscì malmenato, un carabiniere ebbe una costola fratturata, un altro si vide arrivare un calcio feroce. Temendo di essere sopraffatti pensarono di ricorrere alle armi. Si sentì uno sparo. E quel colpo di pistola ottenne l’effetto desiderato. Vi fu un fuggi fuggi generale. Solo un gruppetto in cui si distinguevano "Dragu", "Bassinettu", "Bagaliu", "Ghiacciu Mannu", "Menesiu", "Picciurrettu", "Unga di oru" ed altri voleva tener duro, ma le emozioni violente di quel giorno, l'atteggiamento deciso dei carabinieri, stavano smorzando le loro velleità bellicose e fiaccando le ultime energie. Sui loro volti era dipinta una stanchezza triste. Nei loro sguardi smarriti si intravedevano evidenti i segni della preoccupazione, del pentimento e della resipiscienza. Abbandonarono il campo lentamente e sulla piazza gravò un silenzio quasi solenne. Calavano intanto le prime ombre della sera su quel pomeriggio di fuoco! Le donne richiamate da quella insperata quiete, a gruppetti e con molta cautela si affacciavano alla porta del tempio e di corsa si avviavano alle loro case. "Ziu Giardinu" poté finalmente sprangare il portone centrale e per una porta laterale, corse a casa e vi si rinchiuse a doppia mandata. Il simulacro del Santo era rimasto solo, nella chiesa vuota! Le poche candele dimenticate accese davano gli ultimi sprazzi di luce fumosa e sgocciolavano abbondante mente sulle predelline ricolme di cera. A notte avanzata si mise in moto la macchina della giustizia. I responsabili erano stati tutti individuati e non si volle attendere l’indomani. Sedici furono prelevati dai loro letti e seguirono ammanettati i carabinieri.
Mancava all’appello l’eroe della giornata, che non fu trovato in casa. Solo a notte fonda, in una perquisizione più accurata, una luna piena impertinente, l’aveva scoperto tra il folto fogliame di un fico, nel cortile di casa. E come primo atto di sottomissione alla forza pubblica, volle consegnare "il corpo del reato". Era un temperino di pochi centimetri, con un bel manichino variopinto di madreperla, che aveva raccattato  in piazza durante i disordini, e che, al massimo, poteva servire come tempera-lapis. Avviati a Cagliari qualche tempo dopo, lungo la strada incrociarono la "tracca" della Madonna di Tratalias che era incamminata al paesetto per la processione tradizionale. E quegli uomini ridiventati bambini, rivolsero, con invocazioni di pianto alla Madonna perché volesse intervenire per farli tornare, al più presto, alle loro famiglie. Avrebbero scontato sette mesi di pena, a Buon Cammino, condannati dal Tribunale di Cagliari, che anticipò la loro uscita per la festa del 13 Novembre. Tornarono per quel giorno in cui si festeggiava il "dies natalis" del Martire. E sciolsero un voto maturato in quei lunghi mesi di prigionia. I diciassette, alla Messa "grande", comunti, emozionati, con gli occhi rossi di pianto, vollero accostarsi alla comunione. Dopo la messa circondarono il simulacro del S. Patrono e vollero cantare, da soli, i "Coggius". "De Sa Cresia Santa honori!..." incominciò con la sua bella voce baritonale, Manuelicu T., noto "Dragu", "Terrori de su paganu"... seguirono gli altri, con un coro ibrido e grottesco rotto ogni tanto da singhiozzi di commozione.

venerdì 2 maggio 2014

LA FESTA GRANDE



Sono decisamente un vecchio nostalgico, ma per me la Festa che si sta svolgendo dal 1° al 5 maggio, inizia solo sabato (il secondo sabato dopo la Pasqua)… e finisce martedì.
Io sono di quelli che per loro la festa era quando venivano affissi i manifesti 100x70 (formato elefante, si diceva…altro che i “mostruosi"  6x3 di oggi!) rigorosamente in carta quasi velina e di un bel giallo paglierino, stampato in nero, senza immagini e con una grande scritta in alto al centro “PROGRAMMA”!... e tutti gli anni era quasi simile (cambiava solo il nome del predicatore che avrebbe tenuto l’omelia della messa del lunedì, ed i nomi del cantante o del complesso che si sarebbero  esibiti la domenica ed il martedì): improvvisatori dialettali il sabato, messa grande la domenica e spettacolo musicale la sera, messa grande il lunedì con panegirico del Santo, la processione al pomeriggio, i balli sardi dei gruppi che avevano sfilato dopo la processione, i fuochi d’artificio; il martedì la messa nelle catacombe e un altro spettacolo musicale di tono minore alla sera, tante bancarelle, grandi pranzi in famiglia con ottimi dolci… e finiva la festa!
Ma era la NOSTRA festa, la festa del nostro Patrono (che fosse o non fosse anche patrono della Sardegna ci interessava affatto..), la festa del nostro paese, delle famiglie, della comunità che si sentiva, in quei giorni, tale.
La festa del paese nel suo significato più antico (simile alle tantissime feste di primavera che si celebrano in tutta Italia in questo periodo, dove sacro e profano si uniscono per rinsaldare il senso di appartenenza e di identità, accomunando la devozione al proprio santo patrono e protettore a momenti ludici e di condivisione)
La festa come due facce  della stessa medaglia, per interrompere lo scorrere del tempo e la quotidianità degli affanni di tutti i giorni dell’anno con momenti di festa e di celebrazione, di gioco e di rito collettivo.
Questa è ancora, per me e credo per tanti, la festa.
Questa vorrei che fosse ancora anche per le nuove generazioni: materializzare tutto, pensare di sfruttare questa occasione per fare promozione turistica, far muovere in qualche modo una stagnante economia cittadina, inseguire ad ogni costo la modernità (tutte cose che potrebbero in ogni caso essere fatte  benissimo in qualunque altro periodo dell’anno) mi sembra un po’ snaturare il significato originario ed antico della festa o farlo diventare via via più opaco, fissando pratiche e abitudini che rischiano di diventare  talvolta povere di senso, modificando profondamente il modo di festeggiare, i riti, i gesti e le tradizioni.
Non voglio dire che dobbiamo rinchiuderci in noi stessi come comunità e disdegnare gli ospiti: al contrario, la festa è anche occasione per farci conoscere in uno dei nostri momenti migliori, accogliere, condividere... esattamente il contrario del vecchio proverbio "pagu genti, mellu festa" (poca gente, festa migliore) che mi sembra più un detto consolatorio ed assolutorio (tipo la volpe e l'uva) di chi non riesce a piacere e ad interessare nessuno.
Con questi sentimenti auguro BUONA FESTA a tutti i santantioghesi;  che siano giornate in cui lasciamo per un poco da una parte le differenze, le questioni che ci assillano tutto l’anno, le antipatie e i discrimini; una serena e giocosa pausa per preparare, com’era tradizione, una nuova partenza,  per costruire, da qui alla festa del prossimo anno, un paese migliore, cittadini migliori, un futuro migliore.
E lo faccio in modo giocoso, regalando un gustoso reperto di un altro ANTIOCO, sicuramente meno “taumaturgico” del nostro grande Patrono!